La tecnologia non è mai neutra. Figuriamoci il capitale.
Il tecnodeterminismo è ancora la chiave dominante di qualsiasi analisi sulla presunta "crisi della cultura".
In principio fu la stampa a caratteri mobili. A partire dal Novecento, lo sono stati la radio e il cinema. Poi è arrivata la televisione, oggi - inesorabilmente - è la Rete, dove tutte queste tecnologie convergono. In tutti questi anni, una sola cosa non è mai cambiata. Nel racconto degli intellettuali, la colpa del progressivo, e presunto, degrado del discorso pubblico, e della crisi della cultura, è sempre da imputarsi alla trasformazione tecnologica e al suo impatto sulla creazione, diffusione e fruizione dei contenuti.
Passano gli anni, si tirano le somme di centinaia di dibattiti, eppure continua a sorprendere la ricorsività di ragionamenti già ampiamente superati in tutte le manifestazioni della deprecazione sulla Rete che si sono sommate dalla sua apparizione fino a oggi. In un articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato sul “Foglio” dello scorso 7 Settembre, che vedete qui riprodotto, li ritroviamo tutti: dal "danno umanistico” prodotto attraverso la gamification ingegneristica della cultura (©Alessandro Baricco) all’eccessiva democraticità del dibattito (© Umberto Eco), dall’illusoria libertà dell’information overload (© Alvin Toffler) al giogo di una sfera pubblica obbligatoria per ciascuno di noi (© Alfred Durkheim), fino all’attacco finale alla vera e propria morte nera della cultura, che risiederebbe, di fatto, in una infrastruttura in cui, non sia mai, tutto è accessibile, anzi peggio: tutto è connesso a tutto.
"E' la vittoria di quella semplificazione tecnica che rende tutto più immediato mediando l’accesso a qualunque contenuto informativo e comunicativo, ma occultando il fatto di essere una mediazione tecnica universale che scavalca e derealizza ogni realtà fisica e spazio-temporale. Una mediazione quasi invisibile, cioè magica, quasi miracolosa."
Alfonso Belardinelli, Il Foglio, 7 Settembre 2024
Se da un lato la tecnologia non è mai neutra (non credo sia il caso di scomodare McLuhan), colpisce nel pezzo di Berardinelli non solo il trascurare il ruolo, in questa deriva, del modello economico scelto dall’industria dei contenuti, ma addirittura l’attaccare chi pone la questione al centro del problema, e cioè Vanni Codeluppi, autore del libro I 7 tradimenti del digitale di cui l’articolo stesso dovrebbe essere una recensione.
L’impressione che i lettori de “Il Foglio” dovrebbero trarne è che non è poi così necessario leggere il saggio di Codeluppi, quanto dare sfogo a ciò che ogni Vero Uomo di Cultura sa già: e cioè che purtroppo la Rete ha dato la parola a milioni di imbecilli (ancora ©Eco), che siamo quindi ormai entrati nell’era del dilettante (© Andrew Keen) e che Internet non è la risposta (sempre © Keen), anche se non ho mai capito esattamente a che cosa.
Insomma, come si vede, quelli di Berardinelli sono argomenti già discussi, e anche molto male invecchiati, da quasi una ventina d’anni. Il punto è che se sorge il dubbio di non aver letto nemmeno il libro che si sta recensendo, figuriamoci dotarsi di quel minimo background che sarebbe necessario per evitare di sembrare, davvero, l’ultimo arrivato nell’arena dei tecnodeterministi tranchant. Una piazza, tra l’altro, già molto affollata, anche perché negli anni ha comprensibilmente garantito un largo sostegno di editori e media tradizionali.
Peccato che nel frattempo questi stessi editori e media si stanno già rendendo conto che la corsa a intrattenere, a presidiare la nostra attenzione in canali sempre più chiusi, è una corsa a perdere, come dimostrano i dati del primo semestre 2024, impietosamente pubblicati da Lelio Simi sulla sua newsletter MediaStorm.
Finché, in sostanza, ciò che si considera editoria, intermediazione umanistica, in definitiva “cultura” non riuscirà a valorizzare qualcosa di diverso rispetto all’infotainment rosticciato di cui attualmente si nutre, sarà molto difficile convincere questi milioni di imbecilli a informarsi e acculturarsi altrove. E questo, temo, non è un problema della tecnologia: è un problema del capitale, dell’assenza di editori coraggiosi disposti a cercare altre forme di remunerazione, che non siano lo spostare i nostri occhi e i nostri dati verso la pubblicità, premiando chi vince in questa sciagurata gara, che non sarà mai ciò che eleva “la coscienza morale, sociale e politica”, come vorrebbe l’autore.
Non posso pretendere che questo accada subito. Nel frattempo però, si potrà riflettere qualche istante in più prima di far scrivere una recensione sulla transizione digitale a (peraltro apprezzabilissimo, in altri campi) Berardinelli, che sarebbe come chiedermi di scrivere un saggio di italianistica o una critica di Finnegans Wake.
@stefano feltri ha scritto cose simili in un suo pezzo qui su "appunti"