Ecco dov'era finito l'avanspettacolo.
Le crisi che periodicamente colpiscono brand, istituzioni e influencer sono lo specchio della dimensione performativa della comunicazione istituzionale.
Stasera sono stato alla presentazione del libro “Crisi reputazionali ai tempi dell’infosfera”, di Daniele Chieffi. Chiariamolo subito: non era quello l’avanspettacolo, anzi. Si è trattato di una delle presentazioni più interessanti cui mi sia capitato di assistere negli ultimi tempi. Ricca di spunti, anche per la presenza di altri veri professionisti del mestiere come Bruno Mastroianni, Daniela Poggio e Massimo Cerofolini.
L’incontro si è risolto in una retrospettiva di tutte le più importanti crisi di comunicazione degli ultimi anni, governate brillantemente (poche) o gestite in modo maldestro (la netta maggioranza), che hanno coinvolto brand, istituzioni, politici e naturalmente influencer, a cominciare da Chiara Ferragni.
Ho preso appunti quasi tutto il tempo, perché il tema mi tocca da vicino. Mi sono occupato di comunicazione di crisi all’inizio della mia “carriera” (le virgolette sono d’obbligo), e davvero tantissime cose sono cambiate. Per esempio, ai miei tempi se la responsabile comunicazione di una grande casa farmaceutica come Daniela Poggio avesse pubblicamente detto che a volte il silenzio è la risposta migliore sarebbe stata arsa viva nella pubblica piazza (tra l’altro eravamo a due passi da Campo de’ Fiori, quindi ha comunque rischiato grosso). E invece oggi ha ragione lei. Il contesto di certe discussioni online è così balcanizzato che la classica obiezione “il silenzio comunica” si può facilmente disinnescare con la legittima scelta di marcare, appunto col silenzio, una orgogliosa distanza dal gioco al massacro della polarizzazione forzata che occupa ormai ogni discorso pubblico, digitale o meno.
Ma le cose più interessanti le ha dette (e probabilmente scritte) Daniele. Oggi non si risponde più, come ai miei tempi, con i contingency plan, coi documenti di posizione, con i testi question and answer che pretendevano di tamponare ogni tema critico con dati puntuali, frasi convincenti e altre leve razionali. L’unica cosa che conta, infatti, sono ormai le leve emotive. Occorre contrastare qualsiasi percezione prevalente, vera o falsa, mostrando vicinanza, autenticità ed empatia con chi ti attacca. È ciò che riuscì a fare Cristina Fogazzi (aka l’Estetista Cinica) per spiegare il suo errore al pubblico, e ponendo rimedio con un atto concreto (il raddoppio dei punti-fagiana ai clienti “traditi”) che andasse oltre le vuote parole. È ciò che invece non riesce a Ferragni, che si mostra tutt’altro che autentica nel celebre video di scuse per la truffa dei panettoni Balocco da lei griffati.
Il tradimento della fiducia. È ormai quasi solo questa la causa di una vera crisi di comunicazione. Perché i brand, e con loro gli influencer, sono diventati idoli, “mondi” fatati costruiti sul filo della sospensione della credibilità. E ogni brusco risveglio non verrà mai perdonato, a meno di avere il coraggio di mostrarsi per chi si è davvero.
Ma quando Daniele ha smesso di parlare di influencer in lacrime, ho avuto una specie di flash. Qual è la premessa che permette a questo meccanismo di funzionare? Cos’è, per dirla con Foster Wallace, la famosa acqua in cui tutto il mondo della comunicazione continua a nuotare, senza la quale tutto questo non accadrebbe?
È sempre la stessa. La pretesa che i brand, le aziende, le istituzioni e persino i “brand autoproclamati” che sono ormai gli influencer vengono assimilati a una autorità superiore che come tale ha diritto di salire su un palco, con tutti gli onori e gli oneri che ne conseguono e investirci con i loro messaggi, con la loro immagine, con la loro performance.
Tra gli onori, riscuotono l’appartenenza a uno star system che ridistribuisce vari tipi di dividendi. Tra gli oneri, scontano l’esposizione al rischio di essere presi a ortaggi da un pubblico che, felice di non essere visibile, è pronto a trascinarti nelle polveri di un fragoroso “fail”. Del resto le leve emotive sono ben più governabili sul piano della rappresentazione che sul piano della realtà.
La necessità di una dimensione performativa della “comunicazione istituzionale” (come quella di una azienda, di un brand, e quindi di un influencer) non è però affatto, specialmente nei contesti digitali, una premessa necessaria. Siamo noi ad aver dato ai contesti digitali la forma della comunicazione top-down, palco-pubblico, star-fanbase. Ma la Rete non era nata per questo. Semmai, era stata concepita come l’infrastruttura simmetrica per una conversazione collettiva tra pari. Ci ha pensato l’industria, saldamente legata ai linguaggi e agli stili del broadcasting, a ricondurci all’ordine. Pur armati di ortaggi, come accadeva negli anni ‘40 nel teatro d’avanspettacolo, siamo molto più innocui se rimaniamo in mezzo al pubblico. Perché col pubblico non si dialoga. Il pubblico non è un interlocutore.
Tutto questo per dire che forse l’avanspettacolo non è affatto morto. Lo viviamo tutti i giorni secondo le regole della comunicazione istituzionale. E proprio come al Teatro Volturno, continueremo ad andare per le “12 gambe 12”, certamente, ma soprattutto per bersagliare i comici protetti da un sostanziale anonimato. Ciò che sarebbe davvero rivoluzionario, forse eversivo, è se fossimo davvero, come oggi la tecnologia ci consentirebbe, in una conversazione alla pari. Un contesto in cui un congiuntivo sbagliato, una scivolata su una buccia di banana, una deiezione calpestata verrebbero accolti con una risata, al massimo uno spunto per un dialogo capace di ricordarci che nessuno, in una conversazione, rappresenta una “autorità”.
La dimensione performativa della comunicazione istituzionale non è una condizione data: è una deriva dell’industria. Di conseguenza, le crisi di comunicazione non hanno nulla di realmente democratico. Non sono la rivincita del consumatore, né un segno della sua sovranità. Semmai, certificano l’appartenenza del consumatore a un meccanismo tossico, il cui scopo è non renderli consapevoli dell’acqua, molto torbida, in cui continuano felici a nuotare.
Molto interessante la riflessione. Sottolineo il tema della conversazione come attitudine da nutrire e imparare.