La temuta newsletter prima delle vacanze
"Stiamo sprecando Internet" avanza discreto tra il sonno della ragione e la sospensione della credibilità. E avanza qualche dubbio su un totem indiscutibile: la "città dei 15 minuti".
Non so da voi, ma a Roma, da decenni, Luglio è il mese nettamente più crudele. In città ci sono ancora tutti, e tutti devono freneticamente chiudere mille scadenze prima dell’Agosto Nucleare alle porte. Sulle strade, le auto sfrecciano in preda a vere e proprie crisi di nervi. Nei bar, capita di partecipare in diretta a piccole e grandi rese dei conti, con gente che urlacchia al telefono un mix di preghiere, ultimatum, ricatti, minacce, sensi di colpa indotti o subiti. Perché ad Agosto si chiude davvero, e anche la cruel summer si trasforma nel grande sonno della ragione, del lavoro, dei progetti, di tutto.
Una delle rare fonti di sollievo sono quei momenti di romanità inconsulta che emergono nelle situazioni più rilassate. L’altra sera, nel corso della proiezione all’aperto dell’ultimo episodio di “Mission: Impossibile”, durante l’ennesima scena in cui Tom Cruise si lancia nel vuoto a bordo di una moto da corsa, è partito dalla folla l’urlo “A CAZZARO!”, sottolineato da una fragorosa risata collettiva. E pensare che stavolta, forse, si era buttato davvero.
Quel momento liberatorio non poteva non farmi pensare all’introduzione di “Stiamo sprecando Internet” dove, tra i segnali deboli del cambiamento tra le persone e i racconti dominanti, parlo anche della crisi di uno dei meccanismi chiave dell’industria dell’intrattenimento: la sospensione della credibilità.
Ebbene, nei miei sogni più selvaggi è proprio a questo che stava pensando Giovanni Boccia Artieri, lo scorso giugno a Siena, quando - passando in rassegna i finalisti del Premio Saggistica per la Comunicazione - ha dichiarato pubblicamente una cosa che per me vale molto più del premio stesso, e cioè:
In ogni caso, direi che più che meritatamente, il prestigioso riconoscimento se lo è aggiudicato “Per soli uomini”, il saggio di Emanuela Griglié e Guido Romeo che svela la realtà drammatica di un futuro ormai scritto: perché i Big Data prodotti finora sono il frutto di una cultura, e di un data entry, intrinsecamente e profondamente maschilista.
Tornando a “Stiamo Sprecando Internet”, continuo a registrare reazioni positive, ma a volte anche un po’ scomposte in chi si è trovato a leggerlo, e magari si è sentito chiamato direttamente in causa. Molto spesso le domande che mi vengono rivolte da moderatori e intervistatori sembrano trarre spunto dagli elementi meno confortevoli del libro, che sono rivolti proprio alla categoria degli intermediatori culturali a cui appartengono. Qui, per esempio, Cesare Biasini Selvaggi, il - peraltro molto bravo - conduttore di “Stato dell’Arte”, prova a smontare il libro fin dalle premesse, chiedendomi cose come “ma quindi Internet ci omologa tutti?”, oppure “la rete è responsabile delle proteste violente in Francia?”, ciò che visibilmente mi costringe a un notevole sforzo diplomatico per spiegare che no, non è affatto così.
Mi capita per fortuna di parlare di “cosa sono diventati i media” anche in contesti più accoglienti, come accaduto qualche giorno fa con Francesca de Benedetti e Bruno Mastroianni al festival “Fuori Posto” o al Parco Schuster con Paolo Casicci e Luna Todaro del Quasar Institute. O in interviste come questa, su Lampoon, con Diletta Huyskes e Alessandro Mancini.
In questo momento invece vi scrivo da Agnone, la capitale storica del Sannio in Molise, dove con Antonio Seibusi, direttore del Rocciamorgia Festival, ho avuto ieri l’occasione per discutere per una volta poco di media, e molto di spazio pubblico, marginalizzazione culturale delle periferie e di condizioni per ripopolare le aree interne.
Lo spunto nasce dal fatto che uno dei punti più controversi del libro riguarda proprio le ricette magiche che vengono spesso invocate per risolvere questi problemi, come la popolarissima città dei 15 minuti. Qui è necessario un piccolo inciso: per il solo fatto di aver messo in discussione, nel libro, l’applicabilità di questa strategia in una metropoli sfilacciata come Roma, ho già incassato qualche velata accusa di complottismo, sempre buona in questi tempi un po’ frettolosi.
Forse sarebbe meglio entrare nel merito degli argomenti, invece di specchiarci nelle solite leve identitarie. Io credo che non possiamo - di questo abbiamo parlato al RocciaMorgia, e qui trovate la registrazione - prendere in prestito questa teoria come banale scusa per negare alle persone che abitano in periferia il diritto a vivere il resto della città. E che sia proprio questa l’interpretazione che ne danno molti amministratori pubblici lo conferma il sostegno dei loro elettori di riferimento - quasi sempre privilegiati dei quartieri ben serviti - cui viene sostanzialmente promesso che a nessun residente di Tor Bella Monaca, una volta realizzatogli il teatro sotto casa, per esempio, salti in mente di andare ugualmente all’Auditorium ai Parioli per ascoltare il recital pianistico di Martha Argerich.
Beninteso, l’idea in sé è apprezzabilissima, e in alcuni casi internazionali inizia anche a essere ben applicata. Ma per realizzarla anche da noi è necessario che le nostre metropoli, anzitutto, rendano accessibile l’intero loro patrimonio di servizi a tutti i residenti. Avvicinando le persone alla cultura. Accogliendole nei musei, come fu fatto mirabilmente al Macro Asilo. Migliorando i collegamenti. E poi, solo poi, rendendole servite e autosufficienti. Perché l’autosufficienza è un diritto, non un dovere. Altrimenti si chiama in un altro modo: ghettizzazione. Una parola che a Roma è sempre stata molto popolare nelle classi dominanti: dalla capitale dei Papi, al fascismo, alla speculazione edilizia degli anni 50 e 60. E che non vorremmo certo riportare in auge proprio adesso.
Pagine vive:
Tutti gli atti (testi, registrazioni audio, filmati) del Processo di Norimberga a carico dei criminali della Germania nazista sono oggi consultabili grazie a questo progetto della Biblioteca di Diritto di Harvard. Una miniera per non dimenticare non solo la tragedia della Shoah, ma anche l’importanza della digitalizzazione degli archivi per la memoria dei nostri tempi.
The Lost Media Wiki è una formidabile raccolta di tutti i contenuti persi, o creduti persi, in Rete. Alcuni sono recuperati, di tutti quelli catalogati è in ogni caso conservata la storia dello smarrimento e dell’eventuale riscoperta.